sezione: Lingua Italiana/Vernacolo
Giovanni D’Amiano
per la poesia “Matalena stenne ‘e panne”
La lettura del testo ha dato vita a considerazioni antiche e quasi rimosse. 
         Mai, come in questo caso, il linguaggio ha favorito l’analisi e l’approfondimento di concetti archetipici, riportando alla luce vissuti comuni. Il gioco materico e sensitivo del darsi e ritrarsi, rappresentato nell’arte visiva e in letteratura,viene proposto in maniera semplice e primitiva.
         Un maschile e femminile si esprimono al meglio in una atmosfera ambigua dove i ruoli sono stigmatizzati. Gesti remissivi e quasi sofferti quelli della donna che sa di essere osservata mentre stende al sole e stira con le mani vestiti e indumenti intimi. Audace e coraggioso l’offrirsi dell’uomo. Pieno di materia, tutto sensazioni questo amore inesistente e seduttivo, che come venticello leggero e invisibile abbraccia e amoreggia con la donna che col canto risponde e nasconde il suo coinvolgimento.
Matalena stenne ‘e panne
Tra noce e nnoce, Matalena stenne
 ‘e panne sceriate p”a matina:
 a uno a uno,  scutuléa e appenne
 cammise, reggipette e ssuttanine.
Nu ventariello passa e ‘e cunnuléa,
 ‘o sole ‘e vvasa e ll’arricama d’oro,
 l’aria l’abbraccia, ‘e scioscia, ce pazzéa,
 l’addora, ‘e mprufuma, ce fa âmmore…
E Matalena ll’accarezza, ‘e smove,
 allaria ô sole na vunnella nfosa,
 alliscia na suttanella nova nova,
 s’astregna nfaccia na sciarpetta rosa.
Mentre fa l’angarella mmiez’ê panne,
 cu na vucella fina e nzuccarata,
 arricama nu mutivo, ca se spanne
 comm’’a frischezza ariosa d”a culata.
“Neh, Matalè –lle dico- ‘a vuò na mana?
 Te levo suttanino e reggipetto
 …’a copp”a funa, t”e pprojo mmano.
 ‘O viento s’è arrubbato ‘o fazzuletto!”
Ma Matalena nu’ mme deva retta:
 na canzuncella spruceta ntunava,
 però, ‘a voce nu poco lle tremmava,
 e lle cadeva ‘a mana na mulletta…
sezione: Lingua Italiana/Vernacolo
Franco Revello
per la poesia “Lampedusa”
La composizione si snoda su canoni strutturali e stilistici resi validi, quanto ad organicità ed eleganza, dall’incalzare ritmico del classico verso endecasillabo all’interno di armoniose quartine apparentemente autonome, ma che risultano omogenee nella concezione, perché innervate, sia pure in forma appena percettibile, dalla fine sensibilità del poeta. Questo anche grazie ad una ricchezza di figure retoriche, prevalentemente metafore, che avvolgono come in un’atmosfera rarefatta, suffragata da una sottile levità linguistica, la condizione precaria della fragilità esistenziale e di chi deve aprire il cuore alla solidarietà e di chi vive il sogno di un approdo sicuro su “una libera terra oltre le mura”, scrollandosi di dosso la sabbia desertica che ricopre le spalle. 
 Un’affannosa ricerca semantica, che attinge abbondantemente all’area linguistica della policromia, si modula su un’alternanza di emozioni, ora forti ora lievi, ora trasparenti ora impercettibili, quasi a testare una sorta di specularità con lo stato d’animo, in perfetta simbiosi  (“La mia voce vivrà del vostro fiato”), sia di chi accoglie sia di chi affronta un’avventura con la promessa “di orizzonti lontani”, dibattuto tra incertezze, speranze, paure…
Lampedusa
Oggi il mio volto avrà la pelle scura,
 come le foglie secche ed ammassate
 sulle grate, annerite di paura,
 ingannate dal vento e abbandonate.
Mai più pensieri in vene accartocciate
 né sogni o voli astratti verso l’etere.
 Sulle illusioni fragili d’estate,
 sulla perduta linfa soffia polvere:
inaspettata ruga da nascondere
 all’impietoso specchio, che riflette
 spenti colori, brulle vite povere
 sulle nostre coscienze aride e grette.
Vedrò con occhi vuoti chi promette 
 orizzonte lontani, offrendo sale
 per l’agitato mare a chi scommette
 la propria vita i terra occidentale.
Adotterò la lingua che risale
 le nervature aperte, con ferite
 allineate in maniera sempre uguale
 ai bordi delle labbra ora smarrite.
Mi tingerò le vesti con matite
 multicolori: vele appariscenti
 piene di sole, perse al largo .. vite
 spruzzate d’acqua in mari trasparenti.
Arcobaleno ostaggio di correnti,
 gioco di luce infranta contro i massi,
 l’onda migrante solca i continenti
 tracciando rotte incerte e incerti passi.
Ricalcherò le vostre orme tra i sassi
 impresse in questo scoglio levigato,
 scostando sabbia dai fondali bassi,
 tagliando vecchie reti del passato.
La mia voce vivrà del vostro fiato,
 che dai deserti muove foglie e giura,
 d’aver vissuto il sogno vaneggiano
 di una libera terra oltre le mura. 
sezione: Lingua Italiana/Vernacolo
Paola Volpi
per la poesia “Mollichelle”
La composizione si nutre dell’efficacia di un  linguaggio dialettale  di una straordinaria intensità espressiva, perché gli stati d’animo, genuini nella loro autenticità, non sono mediati da strutture linguistiche  di sapore retorico.
         E’ come il trionfo delle piccole, apparentemente insignificanti realtà, che indossano l’abito metaforico di forti ed eterne verità, nella leopardiana concezione dell’Infinito oltre la siepe o nell’ansia pascoliana della scoperta del mistero nel piccolo-grande mondo della semplicità più pura: è così che i piccoli frammenti della vita si schiudono ad una dimensione cosmica. 
         E’ una sorta di magia quella che favorisce il miracolo che rasserena l’animo del poeta avvolgendo come in un’atmosfera rarefatta le tristi vicende della vita e facendogli cogliere nell’acqua di un cucchiaino “er mare in ner profonno”.
Mollichelle
Senza invitalla me bussò a la porta,
         come er veleno s’infilò ner còre,
         nun era come avecce er raffreddore,
         era qualcosa che nun se sopporta.        
Coll’anni aritornò lo scialacore,
         lei se ne agnede e allora me sò accorta
         che le molliche de ‘sta vita corta
         sò un toccasana contro er crepacuore.
Nell’acqua che sta dentr’ar cucchiarino,
         si vòi, ce vedi er mare in ner profonno
         e li colori spasi in un giardino,
volenno guardà mejo, in  fonno in fonno,
         sò tante luci e stelle oro zecchino
         ch’allumeno le storie de ‘sto monno.
sezione: Lingua Italiana/Vernacolo
Franca Calcabotta Sirica
per la poesia “Atene, inverno 2012”
Atene è dentro di noi; è la nostra storia, l’Acropoli imponente a dirci di arte, scienza, mito, poesia; è il nostro vissuto, città dall’anima mediterranea, trama di vie e di piazze che urlano colori ed emozioni. Ma ora un impietoso inverno, con l’incursione di irriverenti guerrieri moderni, cala sulla polis senza tempo, gela con violenza le speranze e l’orgoglio, estenua nella notte “la rabbia e le lacrime”, spegne “l’oro delle stelle micenee”. 
         L’inverno di Atene è il nostro inverno; il destino di Atene è il destino dell’uomo.
         La poesia si segnala per il vivido nitore delle immagini, ispirate dalla più recente attualità, in cui si trasfigura l’esplorazione dei conflitti interni all’uomo postmoderno. Gli effetti chiaroscurali, la malinconica sonorità, gli accostamenti analogici, in cui passato e presente stridono in una ossimorica contraddizione, impreziosiscono la fattura elegante del verso.        
Atene, inverno 2012
Sono scesa fra le vie d’Atene,
         svuotate di sorrisi e di tempo.
         Ho rubato le lacere vesti di terra greca
         per indossare il dolore della gente.
         A piazza Sintagma
         ho raccolto rabbia e lacrime.
“Al mercato di Atene
         hanno venduto tutti i colori!”
         Così m’ha sussurrato
         un anziano dalle mani stanche
         porgendomi ciambelle e fichi.
         Si spegneva la sua voce
         con la luce fredda della sera.
Un cielo di pianto
         bagnava le colonne
         dell’Acropoli silenziosa.
         Nel lungo inverno ateniese
         attendevo la notte.
         Sognavo ancora di riempire le mie tasche
         con l’oro delle stelle micenee.
L’Associazione socio – culturale “Amici Insieme”, assegna, in occasione della VII Edizione del Concorso di poesia “Verso i versi” Città di Siano (SA), il Premio della Cultura a Michele Sessa, con la seguente motivazione:
“Mente acuta e lucida, voce autorevole e sincera, ingegno versatile. Poeta e saggista appassionato e sensibile ai palpiti veri della natura umana”.
Un figlio del Sud
Per non intinger la penna
         del prepotente nel calamo,
         per non portar la borsa
         al “principe” di turno,
         per non obbedire
         alle mediazion di caste,
         succubo resto
         della cruda società.
         Con l’alone nel cuore
         del pianto e del lutto …
         pure solo, però
         non mi perderò;
         senza niente,
         non mi pentirò,
         figlio del Sud,
         ai margini,
         ma probo d’onestà!
Senza speculare,
         incantato dalla beltà del mondo,
         dal brillar delle stelle,
         dal possente sole cocente,
         dal ceruleo mare,
         pure umiliato e sventurato
         nella mia terra resto,
         sempre figlio del Sud;
         discusso, forse,
         per giustizia e verità,
         senza altra velleità;
         dividendo il sapere,
         speranzoso,
         per l’Uomo pluralista
         canto “sogni”.
Aspiro al riscatto
         Del mondo accorato,
         dell’eroismo provato;
         geneticamente invaghito.
         Aspiro al riscatto ….
I “debiti”
         delle identità locali,
         esposte a rischi demenziali,
         ad anonimi pericoli
         appianare vorrei
         supplendo io,
         con l’impegno,
         onesto figlio del Sud.
        
Voracità
Meglio vorac’ ‘e vocca e nun d’a sacca,
         almeno mengo mmocca e niente ‘ntacco.
 ‘A ggenta storci’ ‘a vocca e tutto nzacca
         Sia ca nterra trova ‘na patacca
         O quant’ ‘o mare porta c’ ‘a risacca.
J’ me cocco
         Si m’attocca
         Pecchè l’âia sapè:
         Se bive sempe a schiocca a schiocca
         Pure ll’acqua s’assecca dint’ ‘a brocca.
Cchiù d’uno, ogge comm’aiere, ratta,
         baratt ’e ‘o munno intero s’accatta
         ma, tutt ’e botto po’, all’intrasatta,
         arriva a secca,
         se nzecca ‘a stecca
         e finacchè nu pava,
         pure nterr ’allecca
         e le ven’ ‘a bava …..
J’me cocco
         Si m’attocca
         Pecchè l’âia sapè:
         Se bive sempe a schiocca a schiocca
         Pure ll’acqua s’assecca dint’ ‘a brocca.
Che m’ammacco, amico, nu me ‘nghiacco,
         tengo paura pe’ nu brutto smacco!
         D’esse vorac’ ‘e sacca nun so’ capace,
         vorace ‘e vocca sì
         pe’ nu me disperà,
         pe nun agliuttì
 ‘o ruospo ca fa struzzà
         e ‘a fede fa nghiaccà
Meglio vorac’ ‘e vocca e nun d’ ‘a sacca,
         almeno mine mmocca e niente ntacche….
Va’ te cocca
         Si t’attocca
         Pecchè nu nguacchio
         E’ comme se bevisse a schiocca a schiocca ..
Eppure ll’acqua s’assecca dint’ ‘a brocca….
sezione: Lingua Italiana/Vernacolo
Loriana Capecchi
per la poesia “Quasi fiaba una soglia ”
La lirica è memoria che si fa racconto, anzi fiaba, di atmosfere lontane che, rare se non introvabili nella contemporaneità, hanno la freschezza delle “cose” eterne.
         Il poeta, con una felice scelta stilistico-formale, rappresenta la metafora della vita in bozzetti di strofe irregolari dal taglio prosastico che riassumono “l’anima” antica dell’esistenza:…l’odore del pane, la falce affilata, il vagabondare di fanciulli, il palpito della natura fatto di fremiti, ronzii, brusii, la morte innocente e sullo sfondo la sagoma dell’uomo che “fuma in silenzio” sul far della sera…
         La “soglia” che dà il titolo alla lirica, non è linea di demarcazione netta e definitiva tra il dentro e il fuori, il prima e il dopo, la vita e la morte perchè il recupero memoriale diventa illusione di continuità, quasi rivelazione per cui se la “pendola al muro” non scandisce più il tempo nè l’amore più l’attraversa, la fragranza della lavanda ristabilisce una corrispondenza tra terra e cielo.
        
        
Quasi fiaba una soglia
La soglia consumata adesso è fiaba
         di tanti che passarono
         ed un vento
         di grano e di papaveri alla porta.
La pietra racconta l’odore del pane
         la selice dura che affila la falce
         lo sputo sul palmo
         la morte innocente
         del fiore vissuto una luna soltanto.
Vagabondare dice di fanciulli 
         persi lungo le sponde di torrente
         nella magìa dell’aria ad ascoltare
         l’anima delle cose ch’era un canto
         brusìo d’insetto
         fremito di ramo
         per un frullo nascosto tra le foglie.
Nel ventre del pozzo scendeva la brocca
         celando gelosa l’anguria sul fondo.
         Nel buio di istanze nervoso un ronzare
         trovava alla fine la strada del sole
         se l’afa d’estate accostava finestre.
E fuori restavano i fieni nel vento
         onda su onda i poggi in lontananza.
Da allora 
         la pendola al muro non chiama più i giorni
         al gesto sacrale che segna la fronte
         la sagoma scura sull’aia la sera
         dell’uomo accucciato che fuma in silenzio
         trinciato di vite sputando la sorte.
Non varca la soglia l’odore del pane
         la fame sul tavolo
         il pugno
         l’amore
         fugace un sospiro che taglia il silenzio.
Non curva la spiga sul cuore del campo.
 Il solco beve cieli di lavanda. 


Leave a Comment