Concorso di Poesia – “Verso i versi” – 2009 – Motivazioni

Segnalazione di Merito della Giuria

Silvia Montieri

per la poesia “La signora dei gatti

La signora dei gatti di questa lirica, pur emergendo da atmosfere dondolanti tra solitudine e nostalgia, si connota come una figura luminosa nel “grigio di cemento di città” .
I gesti, con la puntualità di un rituale, la impegnano ogni sera a preparare una “ciotola calda” per i gatti.
Il componimento è in fondo un atto d’amore traslato: i sogni, i desideri, i ricordi, l’eco di una marcia nuziale si riassumono ora nell’appuntamento serale fuori dal portone dove la tenerezza verso un gatto diventa l’espressione di un inappagato bisogno d’amore.

 

La signora dei gatti

Vento silenzioso e protetto
in un punto alto di città,
Grigio di cemento
e tra le strade un po’ di felicità.
La signora si veste d’amore
e s’abbottona per il freddo,
Riscalda il cibo preparato
e accarezza il suo corredo.
Nella soffitta tra desideri scaduti
e sogni andati a male,
Ricordi impolverati sull’incanto
di una marcia nuziale.
Zampette di velluto
la rincorrono nervose ogni sera
Per una ciotola calda
e tenerezza di una mamma vera.
Agli occhi della gente
code dritte tessono le sue follie.
La signora per ogni carezza
rinuncia alle sue nostalgie.
Miagolii come parole
fuori ad un portone illuminato.
La signora è sempre casa
per un micio appena nato.

 

III° Classificato

sezione: Giovani

Mario Passerini

per la poesia “Una diversa storia

Il ricordo struggente del padre scomparso evoca immagini suggestive che rincorrono, con andamento cadenzato, segnato dalle frequenti armoniose anafore, il recupero di valori eterni, che nobilitano l’animo sensibile di uno dell’ultima generazione.
L’impatto straziante di una triste, irreparabile realtà fa squarciare il velo del mistero di quel meraviglioso mondo dell’infanzia che aveva irrorato di linfa vitale la sensibilità del poeta, il quale invoca il perpetuarsi di un percorso, nell’ansia di realizzare chi sa quale misterioso, indefinibile sogno.

 

Una diversa storia

Perdonami, padre, per quell’ultima notte
trascorsa sulla sedia ad aspettare l’alba
e se poi in silenzio il giorno
per te non è mai arrivato.

Perdonami per quell’ultima volta
che sono rimasto immobile a fissarti
le mani a terra appesantite
che si voltavano verso nuovi orizzonti.

Non sapevo, padre, delle terre rosse
innaffiate  con il sangue di bambini
date a bere a favole e a canzoni
per il tempo che sapeva d’azzurro.

Non sapevo della fine del cielo
del giorno che sarebbe caduto
giacendo sui volti dei mari dispersi
che trascinano con sé i propri nomi.

Padre: ora che ho mani di vento, torna
ad accarezzarmi ancora il cuore, a dirmi
che c’è ancora tempo per soffiare
un’altra candela e spegnere i giorni
delle sofferenze che ci dividono.

C’è ancora tempo per chiedere
un’ennesima sera per ritrovarci
e fare tutto ciò che facevamo:
un resoconto di vita quotidiana
da scrivere negli archivi della memoria.

Sì, padre, c’è ancora tempo per chiedere
una diversa storia da raccontare
che abbia magari un finale diverso:
un finale, padre, che neanch’io conosca.

II° Classificato

sezione: Giovani

Alfonso Roscigno

per la poesia “Sto viaggiando da così tanto tempo

Il tema del viaggio, metafora della ricerca condotta fuori e dentro di sé, si snoda su due piani paralleli, che talvolta si intersecano confondendosi: quello letterale, in cui l’“io lirico” dell’autore, proiettato in corsa sulla strada, ri-flette sull’incontro, dalla forte valenza esperienziale,  con un “tu” femminile, anticonformista e volitivo; e quello figurato, in cui l’ “io interiore”, ri-flesso questa volta su sé stesso, sonda le profondità di una volontà intorpidita, dimidiata tra pulsione e inibizione, slancio e repressione, azione e nichilismo.
Il componimento si distingue per l’efficacia delle sequenze e per la scelta di un linguaggio agile, originale, contemporaneo, enfatizzato, comunque, dal ricorso ad espedienti retorici più “classici”, quali rime, consonanze e traslati.

Sto viaggiando da così tanto tempo

Sto viaggiando da così tanto tempo
da dimenticare perché lo sto facendo.
In caduta libera, sui vetri dell’ auto in corsa,
migliaia di gocce di pioggia sciamano, sospinte dal vento,
finché non libero il tergicristallo a cancellarle in un momento.

Mi capita di sospirare,
a vedere che l’ attimo seguente tutto torna uguale.
Mi capita di guardare il vapore tossito dei gas di scarico,
per chiedermi se anche la vista che hai dal tuo camper è così tetra da metterti panico…

Ti sto pensando Ale,
Ti sto pensando…

illuminata dal grigio perlato di questo temporale
mentre imprechi di riuscire a comprar da mangiare.
Che mi svegliavi di notte per guardare la neve, a cui ho mancato di dire che mi ha fatto bene.
E così ti penso a 130 all’ ora.
Nelle luci rosse degli stop che mi intimano di rallentare,
mentre il solo pensarti non ti può consolare.

Mi vergogno di questi limiti di velocità,
che non affronto perchè non ne ho le capacità.
Mi sento inutile a chiamare per tenerti compagnia,
poiché ai ” come stai ” rifileresti un temporale di malinconia:
a fare i conti con le giornate incolore,regolare le giuste dosi di metadone,
mentre 140 all’ ora sono il limite che non dovrei superare,
sul bagnato,arrabbiato,in tangenziale,
a 180 all’ ora è più facile morire che tergiversare.

Che un po’ delle tua vita basterebbe a rendermi pazzo.
Ma tu ce la fai.
Non io e i miei piccoli problemi del ………

 

I° Classificato

sezione: Giovani

Liliana Peruzzu

per la poesia “L’Aquila spezzata

La lettura del testo rimanda al tema trattato nell’antologia di Spoon River, dove i protagonisti rivedono come in un film la loro vita. Tutto trova il suo significato, la sua spiegazione. Tutto nella necessità di un destino che non si può cambiare.
Sembra di vedere questa ragazza che, spettatrice, rivede il momento in cui i suoi sogni e i suoi desideri sono stati fermati. Non c’è protesta, solo racconto di un accaduto, dove si è costretti a cambiare scena.

L’Aquila spezzata

Con esili e stanche dita sfioro appena le ridenti foto
disposte lungo la liscia superficie di un lembo di parete …
macchie indistinte di colore, in cui rivedo la mia figura:
Io studentessa,
io coacervo convulso ed eterogeneo
di pensieri, aspettative, fiducia;
io, braccio teso
nel tentativo vano di afferrare
un futuro, che non mi è dato vedere.
Quello che di me apparteneva al mondo sensibile
giace silente tra cd spezzati,
pagine sbertucciate di libri e sogni divelti,
schiacciati dal greve peso del cemento.
Intorpidita, non percepisco nulla,
se non il cupo e sgomento brusio della disperazione,
però, ricordo esattamente ciò che ero:
una candela bianca, protesa verso il cielo,
alla cui sommità ardeva viva e iridescente
una vibrante lingua rossa!
Quando la terra ha ruggito,
una campana di cristallo è calata sulla mia testa
e la mia fiamma si è assopita!

 

Menzione d’Onore della Giuria

sezione: Lingua Italiana

Giovanni Caso

per la poesia “Così il mio corpo s’incarnò nel mondo

Il motivo del recupero memoriale è espresso attraverso un gioco variamente articolato di immagini metaforiche, un flusso di analogie ottenute per rifrazione, allo scopo di dare consistenza plastica a quello stato d’animo che è proprio dell’umanità adolescente: un turbinare di sogni sussulti ansie, dubbi pronti a sciogliersi “in un’ora”, tensione verso l’Assoluto; primi, intensi conati di un cammino “senza tempo”.
La lirica si presenta come il canto dell’iniziazione alla vita attraverso una serie di esperienze rappresentate liricamente come fusione panica tra l’ “io” e la “natura”, che, provvida, lenisce il dolore con “sorsi di rugiada”, attinti alla fonte inesauribile della “memoria”.

Così il mio corpo s’incarnò nel mondo

Cerco in fondo alla ciotola una lacrima,
un lumino che illumina il suo niente,
l’ala d’un sogno che si piega all’anima
come un sussurro, cerco nei ricordi
la spada fiammeggiante del frumento,
le mani di cristallo dei mattini
bianchi di brina, cerco la scintilla
che accese in me lo spirito bambino
quando balzavo al mare dell’eterno
e gli occhi s’incontravano con Dio.

Quanti silenzi accolsi in quelle sere
di gemme e luci vorticanti in cielo,
e un dubbio mi durava appena un’ora
e si scioglieva l’acqua della pioggia
dolcissima sul viso, quante foglie
cucii con fili d’erba per cappelli
e giacche altere.

E poi di altri segni
s’incise il cuore al dito della luna
nelle stagioni colme d’ansie e gridi,
di uccelli senza tempo, ed un cammino
mi accolse allora, in pugno qualche seme
perché morisse al gaudio d’una spiga.

Così  il mio corpo s’incarnò nel mondo,
conobbe storie e incantamenti, visse
di carne e sangue, e sorsi di rugiada.
E sempre attesi un vento che bussasse
al pallido cancello dei pensieri,
dove s’accende un lume di memorie
a sciogliere il dolore della vita.

Segnalazione di Merito della Giuria

sezione: Lingua Italiana

Nicola Aurilio

per la poesia “’O vico

La lirica, ben ritmata, sembra rievocare le raffinate serenate di Salvatore Di Giacomo, ma da un’analisi più profonda si rileva che, al di là del bozzetto folcloristico, c’è l’urgenza di esprimere con l’essenzialità della parola poetica una realtà che soffoca, una realtà che è appena sfiorata dal sole  e che incupisce l’anima.
Non basta più un lembo di cielo;
lo spazio angusto d’o vico, priva l’anima della sua naturale tensione all’infinito e condanna l’uomo a vivere come ombra.
La poesia scevra da ogni retorica è metafora di una Napoli che mai come ora ha bisogno di riscatto, ha bisogno di scrollarsi di dosso le sdolcinature antiche e “urlare” di dolore perché costringe giovani scrittori a vivere “ int’ all’ombra ”, sottoscorta.

‘O vico

Pe nuje che simme nati dint’o vico
nu raggiulillo  ‘e sole è buon amico
ce scarfa st’osse fredde e scarfa ‘o core
smaniuoso ‘e ‘na parola e dde calore.
‘O sole int’a stu stritto è nu minuto:
‘na carezza, nu raggio … e se ne gghiuto.
‘Nta ‘st’ombra cupa nuje passamm’’a vita
mpietto ‘nzerranno ‘n’ anema ‘ncupita
e o tiempo ce fa uguali a chesta via
ombre int’all’ombra, ombre ‘e pucundria
chè non ce basta chesto poco ‘e cielo
pe’ ristura ‘stu tropp’antico gelo.

Napule: sole mare e serenate …
e troppe vite all’ombra cundannate.

 

Segnalazione di Merito della Giuria

sezione: Lingua Italiana

Antonio Giordano

per la poesia “Presentimento

Lirica che risente di tenue, solenne ma profonda sensibilità. Vi palpita il sentimento di una madre che ha donato al figlio il meglio di sé, ma che, al momento decisivo, consapevole della sua fragilità, chiede al figlio –allievo un sostegno consolatore.
Si tratta di accenti soffusi di una sottile delicatezza, ma che si distendono su un’armonia arcana di ritmi mollemente risonanti sulle suggestioni dell’antico, accattivante e sempre intramontabile sonetto.

Presentimento

Guarda la nube rossa sopra il monte,
nasce una stella già nell’aria pura.
Si china ormai alla fine la mia fronte
di vita mia che fu rocciosa e dura.

Io che t’aprii dell’arte chiara fonte,
tu che di gioia e crucci fosti cura,
della tua aurora al cuore scava un fronte.
La mia discesa allor sarà sicura.

Riluca dell’occaso inizio e avvento,
che fonda dentro me divino e umano,
che dopo le tempeste scorra lento

questo esistere mio che non sia vano.
Ma, quando sarà giunto il mio momento,
se avrò paura, tienimi la mano.

A  te, allievo e figlio


III° Classificato

sezione: Lingua Italiana

Loriana Capecchi

per la poesia “Marina

È un bozzetto questa poesia in cui l’autrice fa scorrere in istantanee più o meno veloci un paesaggio marino.
La parola poetica, tuttavia, trasforma il tema piuttosto familiare in immagini nuove creando quasi un circuito d’amore tra la spiaggia, il mare, i gabbiani, le vele e la presenza umana così varia: dalla donna in cerca di conchiglie, all’uomo con il suo cane, dalla bimba ammaliata fino allo “stranito pescatore”.
La valenza della lirica è nell’alternanza armoniosa di sensazioni e sentimenti e pare che: l’odore salmastro, il suono carezzevole dell’onda, la luce delle stelle e delle lampare si dissolvano nelle lacrime del pescatore sintesi di tutto il travaglio dell’esistenza.

 

Marina

S’innamora la spiaggia di ogni mare
a cui il cielo si tende e ruba vele
da condurre
ali bianche
all’orizzonte.
A pelo d’acqua baci di gabbiani.
Gomene abbandonate veglia il molo.
A tratti il vento.
Odore di salmastro.

Qui sulla sabbia adesso resta muta
vecchia una barca e invoca la risacca
a consumarla di carezze antiche.

China una donna in cerca di conchiglie.
Orme di uomo.
Orme del suo cane.

Davanti a lei c’è solo il mare. Ascolta
la voce dell’onda che a riva si frange
e in bianco sorriso di schiuma si spande.
Per poco riflette uno squarcio di cielo
che seco conduce le nuvole erranti.

In queste la bimba che fui
il piede curioso vorrebbe azzardare
ma sabbia gelosa le rapisce in breve.

Sorride uno stranito pescatore
tornato ancora e ancora a stessa spiaggia
che gente ricorda stagliata nel sole
oppure a una pesca di stelle e lampare
che aveva talvolta nascosto nell’ombra
un volto rigato di lacrime strane
scambiate magari per acqua di mare.

II° Classificato

sezione: Lingua Italiana

Alberto Canfora

per la poesia “Caro l’artista …..

Il poeta per sua natura si astrae dal mondo, crea sogni e forme di magia: si esalta e si realizza in essi; ma sarebbe bene che la sua fervida ricerca dell’assoluto nobilitasse a forma d’arte il disagio dell’umanità sofferente.
Originale lirica, in un vernacolo immediato e spontaneo, che scorre veloce, incalzante, ma in una sinfonia di note pervase di profonda malinconia, che risentono del peso di una sconcertante realtà, che non può lasciare indifferente la sensibilità di un vero poeta, che sappia mettersi in discussione, scomporsi in due identità che si riflettono e si identificano al tempo stesso.

 

Caro l’artista …..

Caro l’artista mio …. Ciài mai penzato,
quanno che guardi er celo e l’infinito
o che dipingi er bello der creato
che ce sta un omo, sopra a la panchina
morto de freddo. Guardelo, è stecchito!
Nun l’hai letto er giornale stammatina?
Nun sai ch’edè successo ner traforo?
Sai che Ninetto è morto sur lavoro?
E te, poeta, penza pe un pochetto
quanno che scrivi de li monti belli
e vedi er celo co li nuvoloni.
Guarda puro pe terra e penza a quelli
che dormeno de sotto a li cartoni.
Gran cantautore
che canti tante cose
d’un monno che va avanti senza amore;
perché nun fai canzone coraggiose,
nun canti monni veri
indò sò martrattati li stragneri?

Si uno nun lavora p’er mercato
po’ tirà fora tutto er sentimento:
j’abbasta un occhio, si nun è cecato.

 

II° Classificato

sezione: Lingua Italiana

Alberta Maresca

per la poesia “ N’ uòseme ‘e viente

Parole antiche, semplici e leggere per descrivere “n’uòseme ‘e viente” che scuotendo uomini e cose fa sentire fragili e resistenti.
Un’aria di vento infonde nuova vita, chi scrive è preso da una sorte di tenera e fresca ribellione, quasi rifiuto di ogni imposizione e falsa sovrastruttura. La fresca trasparenza del vento purifica e insorge con nuovi desideri. Sentirsi nell’aria sospeso e compreso nella natura delle cose, essere una piccola foglia d’ulivo o di palma e muoversi assecondando i movimenti dell’aria senza fermarsi indossando il vento.

 

N’ uòseme ‘e viente

N’uòseme ‘e viente sàglie ‘int’’a nuttàta
ca s’è appena appuiàta ‘ncoppo ‘o mare;
trèmmene ‘e làstre
sòneno ‘e fenèste
‘o paese suspìso dint’all’aria
‘nvetriàta ancora
‘e ‘nu turchino  chiaro.

Nun voglio cchiù penzà
me sente stanche;
lasciàteme ‘int’a scesa d’’a marìna
c’’o ffrisco ca me passe ncuollo e ‘ncàse.
Me sente stanche;
nun voglio turnà a casa.

Vogli’ essere n’aulìvo scutuljàte
e chella foglia peccerella e scura
ca tremme sempe e  maje nun se ne vòle;
‘e chella cimma ‘e parma àveta e sòla
ca  sbuntulèje e maje nun tròve  pòse.

Ventiàte comm’a lloro,
dint’ e ffore.

Sceppàte ‘a cuòlle
ogni  mal’addòre,
ogni  prufùmo fàuzo
‘e  piaggiarìa.

Lavàte ‘e ogni lordùre .

Voglio sèntere sùlo
‘e  chell’addòre
ca nun s’avvèrte,
ca nun sàpe ‘e niénte
addore ‘e viénte.

 

I° Classificato

sezione: Lingua Italiana

Jacopo Celesia

per la poesia “ Addormentata

Addormentata è una lei, figura femminile, umbratile e fuggevole, che si aggira sulla riva del mare nella notte nera, violata  e squarciata dal raggio abbacinante di un faro. Il baluginio intermittente dissipa le ombre e ridona luce ad un mondo “altro”, che riaffiora a sprazzi e mai in forme nette e definite.
Addormentata è lei (vittima o impietosa amante) che, nel fascino inquietante di un’atmosfera al limite dell’esperienza onirica, incontra il suo passato, drammatizzato dai volti degli amanti, prima “muti” e poi “urlanti”, a duplicare l’ossimoro delle “ceneri fiammanti”, della passione antica non ancora svilita.
Addormentata è lei, forse ora angelo redentore, che li accoglie “ridente” e “serena”, e, infine, s’invola nei riverberi dorati del giorno che nasce.
La forza evocativa delle immagini si coniuga con la raffinata elaborazione formale, culminata in una serie di stanze di endecasillabi e settenari, cui conferiscono ritmo sostenuto e incalzante gli accorgimenti retorici, non ultimi la rima alternata, mimetizzata e mai cantilenante, ed un lessico selezionato e semanticamente incisivo.

 

Addormentata

Giunsero sull’acqua viva
riflessi i muti volti nell’acciaro
della fuggente riva:
vampa la dura lamina del faro
rotta la notte diva
rifugio non cedeva né riparo
all’ombra disvelata che moriva.

Chi furono? Le ceneri fiammanti
delle tue smarrite età ?
O i sogni dolorosi degli amanti
nella fluente vastità 
ad indugiare come lumi infranti?
Non dimora la pietà 
su questi visi urlanti.

Ma tu serena li accogliesti grata
come da sempre attesi
ridente sulla sponda liberata
dei giorni tuoi distesi;
e nell’Aurora pallida e dorata
di voli biondi e accesi
fuggisti silenziosa e addormentata.

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