Concorso di Poesia – “Verso i versi” – 2010 – Motivazioni

Segnalazione di Merito della Giuria

Alessandra Marika Bruno

per la poesia “Silenzio

E’ un componimento efficace nella sua ermetica brevità, perché concentra in pochi versi accenti molto intensi, amplificati dalla magia di una metafora, sulle note di una sobria musicalità, che riesce a trasmettere sensazioni, direi pervase da un vuoto raggelante, che attraversano il cuore e la mente del frastornato poeta.
Solo quando l’agitato mondo dell’uomo approda negli spazi infiniti dell’universo, avverte il vuoto della sua nullità, l’implacabile violenza esistenziale.

Silenzio

Silenzio, spazio immenso senza suono.
Mi avvolge di freddo e solitudine.
Il pensiero si spande al di là
della mente
e la vita sfugge da queste
mie piccole mani.

 

III° Classificato

sezione: Giovani

Arianna Ranauro

per la poesia “Come cioccolato

Nessun confronto è appropriato quanto quello tra il cioccolato e la fresca sensibilità di un amore giovanile…..ebbene questa lirica è un tripudio di sensazioni olfattive, visive e gustative che in sequenza incalzanti comparano il delizioso sciogliersi del cioccolato al contatto languido, vellutato, inebriante con l’amato.
C’è nella lirica la capacità di rendere con la parola metaforica il coinvolgimento totale e pervasivo dei sensi che si appaga in un bacio il cui sapore, proprio come cioccolato, vorresti durasse un’eternità.


Come cioccolato


Ti guardo ad occhi chiusi,
e la ridente immaginare di te,
ammalia il mio pensiero,
come cioccolato,
che ammicca, nero ed invitante,
agli occhi sgranati ed increduli
di un bimbo goloso.

Mi parli nel silenzio,
e al suono ovattato della tua voce
di caramello e neve,
all’improvviso mi sento smarrita.
Un fremito mi assale,
ed io quasi mi sciolgo,
come cioccolato tra le dita.

Ti avvicini, mi sfiori piano,
con le tue mani di miele e di schiuma,
e in un abbraccio il tuo profumo inebria
e riaccende i miei sensi,
come cioccolato,
odoroso e fumante,
che sveglia le narici
e stuzzica il palato di piacere.

Poi le tue labbra di zucchero e fragola
Finalmente incontrano le mie,
e questo bacio, strappato all’aurora,
è dolce linfa che riscalda il cuore,
come cioccolato,
che più ce n’è, più non ti basta mai,
e più ne hai, più ne vorresti ancora.

 

II° Classificato

sezione: Giovani

Giulio Liguori

per la poesia “Poesia per Alda Merini

Nel titolo un nome, una dedica che avrebbe potuto indicare e chiarire il significato dei versi che seguono, ma poi, quel nome diventa il simbolo del sogno poetico dell’uomo. Nel testo interrogativi che nella ricerca comprendono l’essenza umana. Parole come tracce del percorso dell’anima del poeta che nella solitudine esprime la sua naturale inclinazione a lottare col sangue fatto inchiostro che traduce l’eterno conflitto di chi lotta e si oppone al destino.

Poesia per Alda Merini

Quali colombe siamo?
Da quali sogni
le nostre ali son forgiate?

Se la smunta pienezza
è sfondo dell’animo nostro,
e il cielo stellato è un insieme
di aneliti illusi,
la penna,
stretta nel pugno,
è anima in petto.

Corre l’inchiostro
nelle cupide vene,
gonfie
di viva poesia,
corre l’inchiostro,
mal letto e incompreso,
corre
e lo chiaman pazzia.

Ogni poeta
fa guerra al dolore,
combatte la gioia,
si oppone al destino.
Ogni poeta
è uno spirito solo,
sorda colomba,
eterno conflitto.

 

I° Classificato

sezione: Giovani

Marco Parlato

per la poesia “La tigre e l’artista

La tigre e l’artista: due identità allo specchio. L’una ridotta all’angolo, strappata alla terra d’Asia, scippata della vita selvaggia; l’altro che, negli occhi spenti del felino, presagisce la possibilità della propria resa. Il poeta affida il senso proprio della lirica e quello universale della vocazione dell’artista al verso finale, sostenuto dalla forza fonica delle allitterazioni: “ruggire alle sbarre” è “dare voce alla propria coscienza”, senza compromessi, anche in condizioni proibitive; un imperativo categorico, questo, destinato però, così come sottolinea la forma interrogativa, a fare i conti con i limiti e con la fragilità della  natura umana.

La tigre e l’artista

Nei tuoi occhi c’è la resa e più nulla.
L’Asia: un ricordo che ti assilla.
Stesa all’angolo mi guardi immobile,
con l’artiglio riposto ormai sterile.

Vorrei avvicinarmi, tenderti la mano,
mi faccio avanti, mi allungo piano.
Un’anima per due corpi diversi,
il tuo corpo striato da ritrarre.

Smetterò anch’io di ruggire alle sbarre?

 

Segnalazione di Merito della Giuria

sezione: Lingua Italiana

Vincenzo Lamanna

per la poesia “Donna Afgana

È il verso iniziale della lirica che, con effetto straniante, ne suggerisce la corretta chiave di lettura: il burqa, percepito comunemente come schermo coercitivo della donna islamica, non è qui stigmatizzato come simbolo di una tradizione misogina, ma, al contrario, diventa pungolo dell’immaginazione del poeta. L’autore, dietro quel filtro, attraverso quella “finestra senza gerani” scorge un mondo arcaico ed arcano, non quello violato dalla guerra, ma quello irradiato da continui sprazzi di luce, animato dai sussurri di acque, erbe, passeri, palpitante della presenza di un Dio, che rifiuta le categorie del “mio” e del “tuo” e che, invece, anche attraverso dei “grani d’avorio”, parla in ogni dove di vita e di morte.


Donna Afgana

Non alzerò il velo dal tuo viso.
Lascerò all’ombra di una meridiana
la bianca innocenza racchiusa come un paguro
in una conchiglia di cielo.
Tra le tue case di semiluna
nel mugolio scomposto della sabbia di girasole
sentirò la tua voce, il nome del tuo Dio
nel garrulo ilare dei passeri al vespro.
L’amore, nel timido rossore giallo di ginestra.
Aspetterò tuo figlio dalle lunghe corse dell’orsa
il racconto dell’amore senza fiori
il corpo violato dall’indifferenza al pianto delle stelle.
Donna afgana, le tue mani rigate dal sole
non conoscono la guerra
ma solo le cicatrici dell’erba
la carezza dell’acqua che dà vita al pane.
Ecco il mio dono, una corona di grani d’avorio.
Il mio Dio, non diverso dal tuo Dio
che parla d’amore, che solleva  gli storpi
che ridà la luce agli occhi coperti di fango
che parla alla moltitudine di perdono.
Il rosario, la rosa sognata perché tu possa da sola
raccontare la vita e la morte.
Ritorna al pozzo bella come la luna nel suo specchio
con la tua brocca ocra
con la rugiada di un nuovo giorno.
Io resterò a vegliare fuori della finestra
del tuo burqa senza gerani
l’amore turchese del fiore mutato in vita
il dono della solitudine velata di un sorriso.
Vivi nel sogno, vivi nella mente.
Vivi nel lento scorrere di una pellicola bianca e nera
in uno sguardo languido, per sempre donna Afgana
il pensiero, in un solitario cardo della marina
impazzito di luce.

 

Segnalazione d’Onore della Giuria

sezione: Lingua Italiana

Sabrina Balbinetti

per la poesia “Closciarre (er barbone)

Due parti di una fiaba in versi interrotta da una strofa centrale che riflette e riprende in modo empatico il momento cruciale di chi decide di andarsene e come  barca alla deriva chiude con il passato per diventare closciarre. La parola stessa contiene un impulso, quasi una forza che spinge al rovescio. L’uso di un francesismo per universalizzare un concetto per indicare una scelta di vita che va al contrario. Quel barbone, padrone di Villa Borghese, sembra un principe di un regno senza spazio e senza tempo. Amara, però è la conclusione. E’ troppo alto il prezzo da pagare per chi non condivide la cosiddetta normalità e decide di scontare la pena della sua ribellione in coraggiosa solitudine.


Closciarre (er barbone)       
              
Sempre sdraiato ‘n fonno a quer vialetto
sembri er padrone de Villa Borghese
catalogato come senzatetto
nun paghi la piggione a fine mese.

Ciai tutto lì .. l’armadio è ‘na panchina
cor necessario drento ‘na saccoccia
cor sole che te scalla la matina
mentre la sera .. te scalla la boccia.

Quanno spalanchi l’occhi sur futuro
ce vedi solo affanni e prepotenza
te vie ‘la voja .. scrivilo sur muro
“Viva la pace .. abbasso la violenza”.

Te senti er principino der reame
hai rinunciato puro a legge’ l’ora
magnanno solo quanno che ciai fame
‘na coerenza e ‘n core che t’onora.

Così ‘n ber giorno te n’annetti via
scrivennole  du’ righe a matita
come na barca che perde la scia
hai chiuso er cancello grosso della vita.

“Ve lascio tutto quello ch’è de tutti
così voi nun dovete litiga’
l’arbero der bene che da’ li frutti
a chi è capace e lo sa cortiva’.

‘Na trapuntina azura co’ le stelle
da rimboccavve sulle cianche rotte.
‘Na luna de latte e quattro ciambelle
da ‘ntigne ner bicchiere della notte.

Ve lascio la purezza dele crature
co’ l’occhi affamati de curiosità
che senza peli e senza sfumature
ce ‘nzegneno er mestiere de campà.

L’unico conto che ho sempre sardato
è quello salato della libbertà
che pago a rate da quanno che so’nato
e che ve lascio come eredità!”

               

Premio alla carriera

sezione: Lingua Italiana

Giovanni Caso

per la poesia “Al grido dei papaveri

 

Al grido dei papaveri

Ecco, ritorno al grido
dei papaveri, sanguinanti sui muri
dagli zoccoli di luna. Terra mi accoglie
a fiato di stelle, là dove il pane
profuma d’eterno, e le case sono voli,
e i fontanili cembali struggenti,
e i vecchi hanno rughe di sapienza,
e le parole che seminammo
alla pietra hanno messo corolle
sullo stelo del vento.

Ritorno al pozzo
dove prendemmo acqua per le bestie
sfiancate dal meriggio, dove rubammo
carrube al morso del cavallo e sorrisi
alle ragazze dagli occhi di tramonto.
Era silenzio e dolore
la luce sul cortile. Ora cigola la catena
in ruggine d’oblio.

E ci era sulla fronte
gramigna di sudore e fra le braccia
grano e fatica. E masticammo erba
amara quando l’angelo ci disse
di partire. Non avemmo preghiere
sulle labbra, ma sillabe spezzate
come suono di liuto.

Il cielo che portammo con noi
con noi rimase per i giorni della terra,
bianche ombre di vicoli assolati
dove, scalzi, correvamo il tempo
con squarci di coltelli dentro l’anima.


III° Classificato

sezione: Lingua Italiana

Teresa Riccobono Nicoli

per la poesia “Preghiera

La suggestività della lirica scaturisce dall’atmosfera d’incanto che promana dal paesaggio evocato, sospeso tra allusioni mitologiche ed espliciti riferimenti all’antica terra di Sicilia, “carezzata” da avvolgenti fragranze di agavi e zagare. La preghiera è un’esortazione in crescendo rivolta alla Natura, nei suoi singoli elementi, perché, complice, vigili sul legame degli amanti e ne custodisca gelosamente la forza in una imperturbata armonia.

 

Preghiera

Vento, che flebile ti spegni
tra le agavi e le pietre,
riportami le sue parole,
tintinnanti amuleti
che legherò al collo

o luna dei tetti, ti prego,
zittisci l’inquieta civetta,
che il mio signore,
ebbro di passione, riposa
e le bianche falene
si danno alla luce

tu, terra feconda,
custodisci nel soffice grembo
i suoi germogli d’amore,
e voi, Nereidi, affidate
alle acque vorticose
la forza dei suoi abbracci,

cielo lontano
domani il blu screziato
delle sue miopi pupille,
e confido in voi, arabe puledre,
che per la piana di San Fratello
andate selvagge, spargete, di grazia,
l’ebbrezza del suo essere libero

vengano per noi nuove sere,
metterò il vestito della festa,
carezzati dalle calde zagare
e dagli echi lontani della notte,
mano nella mano seguiremo
il canto cieco del tempo.

 

II° Classificato

sezione: Lingua Italiana

Tullio Mariani

per la poesia “Canto dei Millenni perduti

È una malinconica lirica d’amore che, intensa e struggente, canta una donna, anzi la “donna” di ogni tempo: argine e “appiglio” nell’inesorabile scorrere del tempo; battito pulsante che contrasta la noia e l’indolenza; primavera che irrompe e spiazza l’autunno.
Sul piano formale è una poesia ricercata sia per la raffinatezza delle scelte lessicali sia per l’efficacia degli ossimori che esprimono il “chiaroscuro” dell’amore che ha smania di eternarsi e dura invece “un impalpabile battito di ciglia”.

 

Canto dei millenni perduti

Donna d’incenso e d’oro, ara del rito
antico e nuovo come il mare all’alba
struggente come grida di gabbiani
persi nel tempo e nelle brume chiare
di giorni ancora acerbi. Eri baluardo
al tralignare delle ere, al lento
digradar degli eoni. Argine, appiglio
contro il fuggire greve dei miei giorni
già stanchi, già deserti, arresi
al disinganno e all’ironia.

Eppure tra di noi
futuro era bestemmia. Tu eri aprile
io già bruma d’autunno. Tu eri fiaba,
eri mito d’eterno e sei durata
l’impalpabile battito di ciglia
tra il sognare e il destarsi. Troppo presto
e troppo poco e troppo tardi. E poi
il lamento di epiloghi già noti.

 

II° Classificato

sezione: Lingua Italiana

Salvatore Cangiani

per la poesia “Nu vaso

E’ il rimpianto accorato di chi nel ruolo prima di figlio e poi di padre non ha potuto gustare l’emozione di ricevere un bacio prima dal genitore poi dal figlio.
Nu vaso, delicata manifestazione di affetto, assume qui la funzione di un  vincolo ideale che innerva la successione delle generazioni; è come una scintilla, fioca quanto si vuole, ma in grado di infiammare il cuore di chi, come l’autore, che, depositario di nobili sentimenti, si sente come soggiogato da una carica emotiva di forte intensità.
Il linguaggio scorre su una soffusa musicalità, che, distendendosi sulla successione delle frequenti rime, assonanze e consonanze, conferisce al componimento una carezzevole armonia.

 


Nu vaso

Papà nun me vasava. Pure ‘o juorno
c’ ‘o jette a saluta’ cu ‘o giglio ‘mmano
d’ ‘a primma Cumunione nun dicette:
“Quanto si’ bello!” Me guardaje ‘a luntano.

Quanno partiette pe’ ghi’ a fa’ ‘o surdato
scennette abbiascio  fino a fora ‘a porta.
“Statte attiento!” Dicette. E me lassaje
l’anema ascura, ‘inta nu gelo ‘e morte.

Pur’io nun ‘o vasavo. Sulamente
quanno fuje l’ora e tutte erano pronte,
comma nu mariuolo m’accustaje
e l’apusaje nu vaso ‘mmiez’ ‘a fronte.

Mo figliemo va e vene, me saluta
ogni vota, quann’esce e quanno trase.
Me dice: “Ciao .. Boggiorno .. Bonanotte..”
Ma nun s’accosta pe’ me da’ nu vaso.

Si nce ‘o faccio capi’, fa tale e quale
‘o nonno sujo, se guarda tuorno tuorno.
Nun è ca ‘un me vo’ bbene, sulamente
me pare quase ca se mette scuorno.

Ma forse chella ch’era na pretesa
mo è sultanto na fisima ‘e vecchiaia.
E m’acquieto penzanno ca nun serve
nu vaso a dì: ”Te voglio bbene assaje!”

Eppure ‘e avvote pare ‘a vita mia
‘a maglia ca s’è rotta e nun mantene
comme si ‘mmiez’ ‘a na catena d’oro
sul’io songo l’aniello ca nun tene.

N’albero so’ ca ‘e radeche ha perduto
e perde ‘e fronne, e quase s’è siccato.
‘Ncopp’ ‘e ràmmere suje porta nu sciore
ma ‘o prufumo me l’hanno già arrubbato.

Vurrìa sapè, quann’ero piccerillo
o mo, ca viecchio songo addeventato,
quale sbaglio aggio fatto, accussì gruosso,
ca vuje manco nu vaso m’ite dato!

 

I° Classificato

sezione: Lingua Italiana

Anna Maria Cardillo

per la poesia “Il mare d’inverno

La lirica è una sintesi felice di immagini, di suoni e di colori che, di strofa in strofa, cambiano tonalità, tracciando un percorso in crescendo che trasporta dal naturale grigiore del mare d’inverno al luccichio dorato e sensuale dei “granelli di sabbia racchiusi tra i seni”.
Sullo sfondo di uno scorcio intriso di silenzio, si staglia l’immagine di due amanti che con la complicità del mare, desolato e “ruffiano”, si sussurrano bugiarde parole d’amore.
Il pregio della poesia è essenzialmente nella capacità dell’autrice di rendere lo scenario originale ed intenso grazie alla leggerezza del linguaggio traslato.

 

Il mare d’inverno

Mi piace il mare d’inverno
in doppio petto grigio;
tradito da tutti,
solitario allaga la spiaggia
e beve le dune.
Come un cimitero di guerra,
baionette senz’ombra,
gli ombrelloni inseguono un cielo
sempre più straniero.

Mi piace il mare d’inverno
dipinto di silenzio,
stordito d’onde,
travestito e bugiardo.

Lontano, due anonimi amanti
han dato appuntamento all’amore;
anche le gorgonie e i coralli
gli han fatto dono di rossi e di bruni dorati.
Il mare non guarda,
il sole ha voltato le spalle:
gli amanti si mentono
e comprano ghirigori di zucchero
al mercato delle parole.
Poi vanno.

Mi piace il mare d’inverno,
clandestino come un immigrato,
beffardo ruffiano,
ci ha nascosto fra le trine di vento ….

“.. guarda,
ho ancora, racchiusi tra i seni,
dorati granelli di sabbia …

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