Concorso di Poesia – “Verso i versi” – 2014 – Motivazioni

III° Classificato

sezione: Lingua Italiana/Vernacolo

Margherita Neri Novi

per la poesia “Li purtidduna

L’autore, usa la magia di un linguaggio naturale, aderente a un vissuto condiviso e appartenuto a un mondo che lo ha preceduto.
Rimanda a una terra madre che porta con sè da sempre ed è la sua zona ombra, il suo mistero, la sua ricchezza. Tradurre parole e suoni, renderebbe banale il messaggio che continua a vivere nella trasfusione e rielaborazione della vita.
Espressioni cariche di toni forti e densi danno peso e materia a sensazioni appaganti e piene, dal sapore di una infanzia nutrita di miele e sorrisi.
Quale pieno d’amore, il passato ha dato struttura e forza all’autore che spesso ritorna a quel mondo. A volte basta una luce che illumina le imposte per riandare in altri luoghi, ad altre imposte.
Poi, i ricordi diventano leggeri, si disincarnano per rivivere in qualcosa d’altro, come simboli per eternare il passato e illuminare le ombre della  vita.
La memoria, cosi diventa un filtro affettivo per mezzo del quale il vissuto torna a parlare nel presente e concorre alla lettura e interpretazione della realtà per cercarne ancora la poesia.

Li purtidduna ( dialetto siciliano)

Si chiudiru finestri e purtidduna
‘nta dda casa aggiuccata ‘na vanedda,
unni nascìu e criscìu comu ciuri
abbiviratu di meli e di surrisi,
quannu la luna annacava lu sonnu
e i stiddi arriccamavanu lu celu
ccu filu i sita d’oru arabbiscatu.

Quanti primaveri lassati pi strata
cugghiennu ciuri,
assicutannu sonnira,
suspirannu amuri,
quanti stasciuni zuttiati
‘ntra canti d’aceddi,
frutti sucusi
e vuci i caruseddi.

Quanta ciaca sutt’e pedi scarpisata,
tacci di soli struduti,
quanti  vadduna acchianati,
speri di roggiu scurruti …

La strata c’haiu davanti è a sciddicuni,
nun ridi comu tannu lu scaluni,
dda casa e dda vanedda nun mi scordu
e voti ccu la menti ci ritornu …

‘Na lacrima ‘nta l’occhi luccichia
mentri canziu cca manu ‘na filinia
e viu la luna ‘ncelu
ca vasa
ccu so lustru i purtidduna.

 
Le imposte

Sono chiuse le imposte e le finestre
di quella casa che dorme nel vicolo,
dove sono nata e cresciuta come un fiore,
innaffiato di miele e di sorrisi,
quando la luna cullava il sonno
e le stelle ricamavano il cielo
con fili di seta d’oro arabescato.

Quante primavere lasciate per strada,
raccogliendo fiori,
inseguendo sogni,
sospirando per amore,
quante stagioni saltare
tra canti di uccelli,
frutti succosi
e voci di bambini.

Quanta strada acciottolata calpestata,
i chiodi grossi delle scuole sciupati,
quante salite,
quanto tempo segnato dalle lancette
che scorrono sul quadrante dell’orologio .

 La strada davanti a me è discesa,
i gradini non sono facili e semplici come allora,
quella casa e quel vicolo non li scordo,
ogni tanto ci rivado con la mente.

Una lacrima luccica negli occhi,
mentre allontano con la mano una ragnatela
e vedo la luna in cielo
che bacia
con la sua luce le imposte.

 

II° Classificato (ex equo)

sezione: Lingua Italiana/Vernacolo

Umberto Vicaretti

per la poesia “Dittico del fuoco II – Nel rogo ad ardere

Il fuoco è l’elemento che il poeta predilige per ripercorrere le tappe della vita senza indugiare nella rievocazione sdolcinata del tempo andato.
Sin dal titolo, e procedendo di strofa in strofa, la lirica è un unico campo semantico che richiama il fuoco sia per ricordare “la fiamma febbrile” dell’amore giovanile sia per “cantare” le stagioni successive, quando neanche la poesia ha potere lenitivo rispetto al dolore e invano si cerca un luogo “indenne dal grido della porpora e del fuoco”.
Il poeta, tuttavia, stempera questo elemento del suo potenziale distruttivo e ne coglie la forza edificante: quella che dà senso alla vita, quella dei sentimenti e delle passioni che bruciano senza fare male… e altro non chiede se non di consumarsi dolcemente in questo rogo.
Sul piano stilistico la poesia, di pregevole fattura, ha quasi il tratto affabulatorio del racconto che diventa lirica grazie alla densità delle sensazioni, spesso sinestetiche, e alla allitterazione della “r” che ha un effetto fonico tale da rendere immediatamente percepibile l’idea del crepitio del rogo.

Dittico del fuoco   II  – Nel rogo ad ardere

Ho attraversato questa terra quando
la sera era un approdo di dolcezze
scampate alla congiura degl’inganni,    
e buona, tra gli alari dei camini,
ardeva inestinguibile una fiamma
febbrile al ciocco vivo degli abbracci.

Ora che l’equinozio di settembre
declina già la luce verso l’erba,
lasciatemi per dono, ve ne prego,
di questa terra esausta un palmo indenne
dal grido della porpora e del fuoco:
ho smarrito la cetra e più non ho
né luminosi accordi, né parole
d’ambra per mitigare le ferite.

Ho cantato la fiamma che non cede
al volgere dei cosmi, alle stagioni
(fiorisce ad ogni bacio la mia rosa!);
fuoco che brucia, ma che non fa male,
se ad accenderlo furono i suoi occhi
con i falò appiccati dentro al cuore.

Lasciatemi così,
nel rogo ad ardere,
incendio che gentile mi consuma.
 

 Gentile Presidente,
 sono molto rammaricato di non poter intervenire alla cerimonia conclusiva del Premio di Poesia “Verso i versi”. Il mio è, in particolare, il disappunto di non poter onorare, con la mia presenza, un Premio che nel tempo è andato meritatamente conquistandosi un  posto al sole nel panorama dei Premi Nazionali di Poesia. Ma devo sottolineare che il mio dispiacere acquista una sfumatura sentimentale e, per così dire, “campanilistica”: anch’io sono, infatti, un figlio del Sud, e questa mia forzata assenza mi pesa molto, dal momento che mi priva dell’accoglienza e del calore di Siano, un centro che moltissimo ha in comune con il paese in cui sono nato, Luco dei Marsi, in provincia de L’Aquila. Anche il mio paese, Luco dei Marsi appunto, come Siano affonda le sue radici nella storia dei popoli italici. Ed è anch’esso un centro agricolo, accomunato a Siano dall’antica, solidale e nobile civiltà contadina, la civiltà che attraversarono i miei avi e i miei genitori, quella civiltà che è stata la madre di ogni umana crescita e di ogni progresso. In una sua celebre canzone l’indimenticato Fabrizio De Andrè sottolineava che “dai diamanti non nasce niente; dalla terra nascono i fiori”… E dalla terra di Siano i Suoi operosi concittadini hanno fatto nascere non solo i fiori e i frutti della terra, ma hanno saputo far germogliare, con le iniziative come il Premio Letterario “Verso i versi”, anche i fiori della cultura, tra cui il fiore splendente e affascinante della parola e della poesia.
Un saluto all’amico Giovanni Caso, vostro illustre concittadino, Poeta e artista di raro talento. Anche a Lei e a tutta la bella gente di Siano lì riunita nel nome della cultura, caro Presidente, il mio più cordiale saluto e l’augurio di sempre più significativi successi per il Vostro bel Premio di poesia.

Umberto Vicaretti.
Roma

II° Classificato (ex equo)

sezione: Lingua Italiana/Vernacolo

Marisa Provenzano

per la poesia “I vecchi nel paese

E’ in un’atmosfera, direi, rarefatta quella in cui, con la complicità del silenzio spettrale del paesaggio, gli anziani rivedono tutto un mondo di sogni svaniti e di esperienze intensamente vissute, peraltro senza struggenti rimpianti. Si percepisce come un senso di solitudine surreale, dove il mondo interiore si proietta sui ricordi e sulle suggestioni ormai svanite.    
Il linguaggio, che mollemente si adagia su note, si direbbe, di malinconica melodia, soggioga il lettore, accompagnandolo dove il silenzio del crepuscolo crea come un’atmosfera di sospensione, di attesa, che preluderebbe al cedimento alla rassegnazione, se non sopraggiungesse il soccorso di quel tocco magico della carezza consolatrice e amorevole della luna, che restituisce ancora un palpito di vita in chi si avvia al tramonto. Del resto la nenia che una madre canta per il suo bambino in quell’atmosfera d’attesa, lascia in chi legge la sensazione dell’indissolubile continuità della vicenda umana.

I vecchi nel paese

I passi risuonano sul ciottolato
e tra le case incrinate d’anni,
con i balconi senza più profumi
e le porte socchiuse al tempo.
Guardo i vecchi sulle panchine arrugginite
e sorrido a quegli occhi assenti
volti oltre il confine di ombre sbiadite,
in attesa che il sole scaldi il cuore
e che il tramonto arrossi il volto smunto.
L’orologio della chiesa rintocca
l’ore assonnate e i sogni ormai dispersi
dal vento impietoso dell’inverno
e nella mente ancora rimane il ricordo
di tempi di fatica e di speranze,
di sacrifici per i figli amati,
di pane e povere minestre,
di attese di un domani migliore.
Guardano l’orologio della chiesa
con le mani nodose strette sul bastone,
senza domande sulle bocche mute
all’ombra del tiglio e del cappello.
S’alza la nebbia sulla valle scura
e tutto ovatta e impolvera lo sguardo
ed io mi lascio cullare dalla nenia
di una madre che ninna il suo bambino
sull’uscio che profuma di pane.
Fragili illusioni incrociano la notte
e s’attardano i vecchi a rincasare
per non perdere un’ora del tempo impietoso,
per ricordare ancora l’ultima stella
e porgere la guancia alla carezza della luna.

I° Classificato

sezione: Lingua Italiana/Vernacolo

Rosanna Spina

per la poesia “Composta, la robinia

Un volo immanente per essere nell’anima di un luogo, farne parte e celebrarne un momento. Rarefazione, estensione dell’io per guardarsi intorno e coglierne l’essenza.
Fermare l’immagine di un altrove che si affida solo a chi ne percepisce il senso.
La robinia, sobria nella sua eleganza, sembra una sposa che incede nel suo grazioso e contenuto movimento, mentre,  anche,  la bora le carezza i fianchi nell’armonia di canti, suoni e colori.
Nella sua e composta figura, sembra indifferente e impenetrabile, ma è tutta un vibrare, nella sua rappresentazione dell’essenza femminile, quasi intrigo seduttivo la frantumazione della luce e del vento che la coinvolgono nella leggerezza.
Morbida e sinuosa non si scompone e, come una donna, conserva nel suo intimo un amore che non si rivela appieno, ma si affida solo a chi sa carpirne il segreto.


Composta, la robinia

Composta, la robinia
ha un’aria così dolce
che sembra non conoscere gli inverni

ricorda le sembianze di una sposa
con trine vaporose d’altri tempi

anche la bora cede
dinnanzi alle femminee sue grazie
e in spolvero d’oriente
le sfiora in soffio di carezze i fianchi

è musica sinfonica il ruscello
così naif quella carezza in verde

di rondini gli acuti dei violini
ed un corteo di damigelle in giallo
le laboriose api
solfeggiano vitalità vibrante:

celebrazione agreste di un evento
del quale non c’è traccia
nella storia

ne sono testimoni solamente
i fermo-immagine
che eternano i secondi
negli occhi dei romantici

perché a nessuno saprebbero mai dire
– come del mare l’eco
a una conchiglia –
parole uguali a quella meraviglia.

Segnalazione di Merito della Giuria

sezione: Lingua Italiana/Vernacolo

Sabrina Balbinetti

per la poesia “L’isola che nun c’è più … Atlantide

La poesia è un’ammaliante allegoria di straordinaria intensità espressiva, che, dipanandosi su immagini di magica fantasia, ci descrive il sogno irrimediabilmente svanito dell’umanità, quello di un mondo che prima era un “giojello”, dove si viveva felici nella varietà delle razze, poi, invece, “portò a compie’ solo malazzioni”.
Il poeta, tuttavia, attraverso la musicalità dei versi vernacolari, che si adagiano sugli armoniosi accordi rimati degli endecasillabi e sull’onda di un incalzante inanellarsi di figure retoriche, non intende rinunciare a immaginare, al di là di una società “perza ne l’abisso più profonno”, di poter vivere, direi, in un’atmosfera suggestiva e magica. Così la platonica Atlantide assume una dimensione favolosa, come quella del mondo surreale di Alice nel paese delle meraviglie, o, per altro verso, della manzoniana “più spirabil aere”, dove si vagheggia la realizzazione della catarsi dell’umanità, raffigurata dal “decollo della navicella”, che ci richiama alla mente il provvido volo dell’ippogrifo ariostesco.

L’isola che nun c’è più … Atlantide

Sparita. Ingoiata da li fiotti.
Perza ne l’abisso più profonno
‘nzieme a statue antiche e vasi rotti
facenno mulinello tuttotonno!

Nata ner diecimila Avanticristo,
grazzie a Poseidone, re Re dei mari,
che volle umani inzieme ar sanguemisto
de creature aliene interstellari!!

Labboratorio fino e minuzzioso
pe’ fa’ un dienneà modificato
e poi da vita a un omo labborioso
(‘na sorta de robbò prefabbricato)

‘Sto frittomisto de popolazzioni,
pe’ tirà fora er mejo su la piazza,
portò a compie’ solo malazzioni
in nome de la scerta de la razza!

Da prima, l’isoletta, era un giojello,
ciaveva porti, campi e atenei
la forma tonna de un grosso anello …
anzi, saranno stati cinque o sei!

Fioriva, incurante de la massa
che’era rimasta ‘ndietro, aretrata
e che nun diggeriva la matassa
de esse stata, ar dunque, surclassata!!

La forma che ciaveva ‘st’isolotto,
(svariati anelli intervallati ar mare),
vista dall’arto pareva soprattutto
la fusoliera de un ‘astronave!

Sarà pe’ questo che la sparizzione
a l’improviso .. a la chetichella …
nun sia dovuta a sismi o radiazzione …
ma ar decollo de la navicella!

Premio Speciale della Giuria

sezione: Lingua Italiana/Vernacolo

Giovanni Troiano

per la poesia “Schegge di popoli straziati

La lirica si segnala perché invita ad una riflessione sulla natura drammaticamente modificata della migrazione del Terzo Millennio. All’origine degli esodi indotti ancora antiche ragioni, gli orrori già visti dell’odio e della disperazione, ma assume caratteri tutti moderni, o postmoderni, l’esito del viaggio, l’approdo finale. Paradossalmente nella civiltà della globalizzazione, resta vano desiderio quello di sentirsi cittadini del mondo, quello di trovare una nuova patria e non terre matrigne, insomma di sentirsi a casa in ogni angolo del mondo. Con disincantata lucidità, i versi, sostenuti da una architettura fluida e funzionale alla incisività del messaggio, sottolineano, la distanza tra il destino dell’eroe classico Odisseo, esule in mare anch’egli per una guerra, ma accolto con i sacri onori dell’ospitalità nella terra dei Feaci, e l’esule dei nostri giorni; per l’eroe moderno, il viaggio nasconde altre Sirene, le insidie non più del mare, ma di empi traffici umani e, ancor di più, la repulsione del diverso che nelle nuove generazioni può fomentare solo rabbia e vendetta, a scapito delle millenarie, faticose conquiste compiute dal pensiero razionale.

ÀSHËRA PÒPULSH TË MUNDÙAR (dialetto arbereshe)

Ka dèjtra shùrje
e shkretìmin ndë shpìrtit,
përbàlljën suvàla t’jètra,
shtegtàrët t’i trèjtë milàr
(àshëra pòpulsh të mundùar);
si tek një film papàn i parashtrùar
psòjën trëmbësì të pànura
për shkeke përmòn pahartùar.    
Tjètra Syrènë, ndër këtà motra,
të vdèkme mbreza do t’i shtròjën
Udhyssèut, lundërtàr i pamësùar
e ç’ëndrrën të harèshme pròitje.
Nìsje e shprìshje të forcùar
(mallkìme të rringjàllur të nodhìs)
atdhèra të rea s’i jàpën njèrëzëvet,
po botë njèrke
dhe fruti papàn i fytùar
përmòn ndryshòn dùkjën
(malli e djèrsa kan keq krypë).
Shënji të hùajit ngjàllën nxjèrrje:
 (klè fani mòçëm prìndëvet t’imë!)
kush ish i nëmur ka shpìa tìj
do të gjënj thartìme dhe forcìme,
me ngullìn e mbràzët të bëhën
horjòtë t’jètës gjìthë sa jàn.
Më shùmë lùtjëm pàqën  
dhè më gjàk njerëzòr pìksët
mbì dùar me gëlthàtra.
Skolladhèfrat, nanì e dimi,
se thon fjàlë dy fàqesh t’ëmbëla
për të mbulòjën vërtètë mërzìtshme,
njera sa suvàlja e përdèrdhur rràxhës
(errësì t’arsýeshëmit mendìm!)
mbì të pandëndurat vetëdàshjët
(palipisì)
do të ndënj savane

Schegge di popoli straziati

Da mari di sabbia
e col deserto nell’anima,
affrontano altre onde
i migranti del terzo millennio
(schegge di popoli straziati);
come in un film proposto più volte
subiscono orrori già visti
per cause da sempre irrisolte.
Altre Sirene, in questi tempi,
mortali insidie tenderanno
a Odìsseo, navigante improvvisato
e di fausti approdi sognatore.
Esodi e diaspore indotti
(nemesi palingenetiche dell’odio)
nuove patrie non procurano alle genti,
ma terre matrigne
e il frutto del trapianto
per sempre muta il sapore
(nostalgia e sudore sanno di sale).
Il marchio del diverso suscita repulsioni:
(fu il destino antico dei miei avi!)
chi era reietto in casa sua
riproverà amarezze e costrizioni,
col vano desiderio d’essere
cittadini del mondo tutti quanti.
Tanto più s’invoca la pace
più sangue umano si raggruma
su artigliate mani.
Gli sparvieri, ormai si sa,
usano ipocriti eufemismi
per seppellire scomode realtà,
fin quando l’onda tracimata della rabbia
(eclissi del pensiero razionale!)
sugl’insaziabili egoismi
(impietosa)
stenderà sudari.

Menzione d’Onore della Giuria 

sezione: Lingua Italiana/Vernacolo

Fulvia Marconi

per la poesia “Sere d’agosto e lillà

Il testo coglie ciò che passa, ciò che non ha più tempo, ciò che si pone al di
fuori del tempo stesso e lo trattiene. Il paese, gli amori e i patti non mantenuti costituiscono un vissuto incompiuto, un certo impercettibile mistero.
Gli amori mancati sono canti intonati in silenzio, sono siepi che intrigano i sogni, sono braci infossate nel gelo.
Ricordi come elementi di forza di un carattere che si compie nel tempo.
Nella febbre che invade la notte, il cammino prosegue caparbio nel buio e avanza deciso, mentre chiude la porta all’amore in sere d’agosto e lillà.

Sere d’agosto e lillà

Il fragile fiato di vento
carezza, nel vespro, il paese
e cantano, in coro, campane
a un cielo che già si fa oscuro.
Gli amori, tra i giunchi e i canneti,
nascondono i patti scordati,
rimasti nascosti e umiliati
tra un vinco, un roseto e un lillà.
E scendono, folti, i minuti
per chi và ramingo ai pensieri,
per chi della sera respira
l’odor penetrante dell’erba.
Le rondini volano basse
cercando riparo tra i tetti
e tacciono, nere vestali
d’un piccolo quarto di luna.
Odor d’una sera che cola,
intrisa di fresco e pur d’ombra,
disseta, di zolle, l’arsura
con lacrime al cielo rapite.
Gli amori sfuggiti di mano
son canti intonati in silenzio,
son siepi che intrigano i sogni,
son braci infossate nel gelo.
La febbre che invade la notte,
tra schegge di stelle e d’oscuro,
confonde il mio passo caparbio
che insegue me stessa tra i sassi.
E’ quasi scomparsa la luce,
il buio diventa più cieco,
si chiude la porta all’amore
in sere d’agosto e lillà.

Agli Organizzatori del Premio “Verso i versi” Città di Siano,
alla Commissione Giudicatrice
e agli autori presenti in sala.

Ringrazio sentitamente i vari componenti della Giuria del prestigioso concorso di poesia “Verso i versi” Città di Siano per l’onore attribuito alla mia lirica, purtroppo, però, non posso essere con voi per celebrare festosamente la conclusione della cerimonia premiativa.
Quando il pensiero e il cuore si specchiano l’uno nell’altro si arriva a trascendere la materialità ed allora tutto diventa poesia.
Ogni gentilezza e affettuosità cela il segreto del verso; segreto capace di imprigionare ogni più aspra e segreta introspezione.
Spero che la luce irradiata dai migliori intendimenti possa permettere ai nostri occhi di vedere Colui che, a causa delle nostre colpe, non è mai sceso dalla croce.

Invio i più cordiali saluti e rallegramenti

Fulvia Marconi
Ancona

Menzione d’Onore della Giuria 

sezione: Donna in versi

Anna Ciufo

per la poesia “Matrioske

L’idea della matrioska è per associazione analogica la più immediata e quella che meglio connota il carattere inclusivo della maternità.
Con rapide pennellate, l’autrice coglie questo gioco di “creature e creatrici” tutto al femminile: un alternarsi di pienezza e vuoto che è il moto eterno della vita che sembra dare alle donne, madre e figlia, una onnipotenza quasi divina.

Matrioske
 

Ti apro.
Mi apri.
Evapora il tuo vuoto
antico
che del mio peso
non ha più memoria;
risuona, il mio,
di un più recente strappo,
l’eterno rinnovarsi
della vita
che ci innalza
oltre la soglia dell’effimero,
in un vago sapore di potenza.
Gioco di creature
e creatrici.
Gioco di donne

I° Classificato

sezione: Donna in versi

Lenio Vallati

per la poesia “Il fiore del rispetto

La lirica è una delicata voce di protesta, tutta al femminile, di chi rifiuta la vuota retorica del binomio fiore-amore. Retorica vuota e, perciò, pericolosa. La mimosa è sfacciata, la rosa è effimera, stupido è il geranio, se l’omaggio floreale è svilito dalla liturgia delle apparenze. Il titolo offre, allora, la chiave di lettura dei versi: il rispetto che la donna pretende ha il suo correlativo oggettivo in un fiore altero, perché capace di resistere alle minacce della gelosia o, peggio, alle insidie di una subdola trascuratezza. La prolungata metafora dell’ultima sequenza incastona l’immagine del “fiore del rispetto”: non identificabile con nessuna specie botanica, è l’unico che, secondo un efficace ossimoro, fiorisce perennemente, poiché le sue radici affondano in una passione che è affinata dalla nobiltà del sentimento d’amore, e, al tempo stesso, è caduco, come ogni fenomeno umano, perché avvizzisce solo quando passione  e sentimento svaniscono. Non c’è amore se non c’è rispetto.

Il fiore del rispetto

Non voglio mimose per la mia festa.
Troppo sfacciati quei pallini gialli
nascosti dietro foglie di un verde pudico.
Non voglio rose.
Troppo delicate al mio tatto,
non durano che l’arco di un giorno.
Non voglio orchidee, né panzé,
né stupidi gerani.
Il fiore che desidero
non cresce in un  giardino qualunque,
né lo si può trovare
in ogni mercato.
Voglio un fiore
che abbia radici profonde,
che provenga dal banco del tuo cuore,
e che profumi intensamente
della tua passione.
Un fiore altero, che non appassisca
ai venti aridi della gelosia
e non soffra
la tua trascuratezza.
Cercalo e portamelo questo fiore,
lo metterò in un vaso d’oro
e lo terrò perennemente
sul davanzale dei miei occhi
per ammirarlo ogni giorno
fino a quando,
in un mattino d’inverno,
avvizzirà con noi

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